I tanti casi di lavoro subordinato “mascherato” da autonomo
Con le leggi sul mercato del lavoro dell’ultima parte degli anni Novanta e dei primi anni 2000 si è dato vita in Italia a quel sistema di proliferazione delle tipologie contrattuali, caratterizzate per una minore rigidità delle regole in entrata e in uscita, chiamato flessibilità.
Si prospettava, in questo nuovo rapporto tra datore e lavoratore, maggiore libertà da parte di entrambi, maggiore concorrenza e più efficienza in generale.
Si è raccontato per molto tempo che questo sistema avrebbe consentito ai lavoratori, soprattutto a quelli giovani, di godere maggiore libertà negli orari, nella gestione delle proprie mansioni, nell’organizzazione del proprio tempo-lavoro.
La realtà che abbiamo oggi sotto gli occhi è ben diversa: la flessibilità ha significato per molti consegnarsi “a tempo indeterminato” al baratro della precarietà.
Un fenomeno che oggi riguarda giovani e meno giovani, con alte qualifiche o privi di istruzione, al Nord come al Sud, nel pubblico e nel privato.
Le principali criticità del mercato del lavoro italiano, oggi, riguardano proprio l’impossibilità di passare da una condizione transitoria a una più stabile; l’abbassamento del reddito e la condanna, per migliaia di lavoratori e lavoratrici, a sommare due, tre o quattro lavori per mettere insieme lo stipendio di un mese; il dramma dei contributi, che si perdono nei rivoli e non potranno mai comporre una pensione dignitosa; l’affanno dell’assenza di diritti per malattia, gravidanze, ferie.
Di questo tema, così fondamentale e così complesso, ci occuperemo molte volte nel corso del tempo e sotto vari punti di vista.
Vogliamo cominciare, però, dall’uso contro la legge che viene fatto, da parte di aziende e settore pubblico, di contratti a tempo determinato, collaborazioni continuate e contratti a progetto.
Ci riferiamo soprattutto alla situazione di chi, pur avendo un contratto “flessibile”, non gode nei fatti di nessuna libertà in più rispetto a un lavoratore “tradizionale” nello svolgimento delle proprie mansioni.
Migliaia di persone, in settori molto diversi, hanno un contratto che non prevede né le ferie, né le malattie, né la maternità. Un contratto con una data di scadenza e un periodo di vuoto tra questa e il successivo rinnovo. Che descrive delle mansioni specifiche, affermando il diritto di gestirle con libertà di orario e piena autonomia decisionale. Ma in realtà questi lavoratori entrano ed escono dal luogo di lavoro sempre alla stessa ora, non possono allontanarsi né lavorare da casa, rispondono a precise istruzioni da parte di superiori che ne controllano l’operato.
Si tratta di rapporti di lavoro tipicamente subordinati, eppure mascherati sotto la falsa sembianza di contratti a progetto, di collaborazione coordinata e continuativa, partite IVA.
All’inizio è stato possibile, grazie alla legge del 27 dicembre 2006 n. 296, convertire in contratti a tempo indeterminato quei rapporti di lavoro nella Pubblica Amministrazione in corso da almeno 3 anni e caratterizzati dalla presenza di un rapporto di subordinazione.
In seguito, alcune azioni legali sono riuscite ad estendere questa possibilità anche a contratti a progetto, di collaborazione continuata, di lavoro autonomo.
Un’interessante frontiera che può consentire di “smascherare” quei rapporti di lavoro che, pur prevedendo un termine, dovrebbero almeno essere caratterizzati da una maggiore autonomia, e che invece si traducono in una diminuzione dei diritti e delle tutele del lavoratore senza portare alcun cambiamento nel reale svolgimento del rapporto lavorativo. Casi che esistono non soltanto nella Pubblica Amministrazione, ma anche nel settore privato con grande frequenza.
In attesa di leggi sul lavoro migliori, possiamo almeno far valere qualche nostro diritto in sede legale.
Per approfondire:
- La conversione dei contratti a progetto nella PPAA
- Lavoro Pubblico e precario (articolo Natale)